No Man’s Land, di Danis Tanović (2001)

di Andrea Lilli –

Dagli amici mi guardi Iddio, ché dai nemici mi guardo io.

proverbio popolare

Due uomini in mutande escono allo scoperto tra i due fronti di un campo di battaglia. Sventolano bandiera bianca, saltano frenetici davanti ai cecchini stupefatti. Urlano la stessa lingua: sono serbo-bosniaci, hanno scoperto di avere un’amica in comune, ma sono nemici giurati: Nino è di etnia serba, Ciki è bosniaco. Siamo nel distretto di Tuzla, in Bosnia-Erzegovina, dove tra il 1992 e il 1995 la guerra civile ha prodotto centomila vittime e un dolore infinito tuttora vivo e vegeto. I due soldati si odiano a morte, letteralmente. Malgrado i numerosi tentativi proprio non ce la fanno a farsi fuori tra loro, e allora si sono tolti le divise e insieme chiedono aiuto: gli resta solo la pelle da salvare nella terra di nessuno, la no man’s land che sta fra due trincee contrapposte. Sono intrappolati nella stessa fossa, e per uscirne gli conviene sopportarsi e collaborare, tra un insulto e un agguato. Un altro soldato bosniaco (Cera) è ferito, sdraiato su una mina antiuomo serba, costretto all’immobilità perché se tentasse di sollevarsi da terra salterebbe in aria, insieme a tutto ciò che sta nel raggio di cinquanta metri.

La notte precedente, una notte buia e nebbiosa che ha fatto smarrire la strada verso la propria trincea, un riservista bosniaco diceva all’altro questa battuta:

Sai qual’è la differenza tra un pessimista e un ottimista? Per il pessimista tutto va al peggio. L’ottimista invece crede che qualcosa può ancora peggiorare.

Appunto. Lo show in mutande ottiene il successo sperato, ma non per questo la situazione si risolverà. L’intero film si svolge nell’arco di una giornata, convulsa, ripresa in diretta TV. I due nemici riescono ad avviare trattative, convincono i burocrati dei caschi blu ad interessarsi di loro, li fanno intervenire, catturano l’attenzione dei media, fanno dialogare tra loro francesi, inglesi, tedeschi, serbi e bosniaci, portano i due eserciti a una tregua temporanea… Eppure continueranno a cercare di eliminarsi tra loro, a fare di tutto per non salvarsi, fino all’ultimo. È una chiara metafora di quella guerra, e della follia di tante altre guerre.

Vent’anni fa il documentarista di guerra Danis Tanović fece scalpore con questo suo primo lungometraggio: un esordio folgorante, concepito durante le esperienze dirette del conflitto serbo-bosniaco, che raccolse numerosi premi tra cui la Palma d’oro a Cannes per la migliore sceneggiatura e l’Oscar per il miglior film straniero. Costretto dall’inizio dell’assedio di Sarajevo ad interrompere i suoi studi, Tanović dal ’92 al ’94 si mise al seguito dell’esercito bosniaco e girò centinaia di ore di video. Poi si trasferì in Belgio, dove concluse la formazione in cinematografia. Realizzò alcuni documentari sui profughi di guerra balcanici, e finalmente scrisse la sceneggiatura di questo film straordinario, che presto trovò il sostegno di alcuni produttori internazionali (anche italiani).

La prima qualità di No Man’s Land è lo humour nero: secco, amaro, sparso come il sale su tutta la pellicola con dosaggio perfetto, oltre che i dialoghi pervade le inquadrature dei visi (le facce grasse o magre, sveglie o stupide) e dei vestiti (la lingua in fuori dei Rolling Stones sulla maglietta di Ciki). Poi, il pudore. Tanović non strepita, non si lagna; accusa gli ipocriti e gli sciacalli senza fare prediche, senza immagini sconvolgenti, senza colonne sonore enfatiche (delicate e struggenti le poche musiche, in parte composte dallo stesso regista).

La storia si sviluppa come un vapore leggero, intenso, ma alla fine ti accorgi che ha lasciato un segno, lento ad andarsene, come fa un acido corrosivo. Lo avverti dopo il disagio, troppo tardi per evitare il fastidio. Per fortuna. Non è un film di buoni sentimenti, non è nemmeno un film sulla guerra: è un film di guerra, di quella guerra. È rivolto al pubblico mondiale ma è un evento appartenente al conflitto serbo-bosniaco, è a tutti gli effetti un episodio bellico diretto a colpire i nemici, ad avvertire i sedicenti amici, a sputtanare i cosiddetti neutrali.

Ciki: – E voi non smettete di filmare? Vi pagano bene? La nostra miseria è redditizia, no?

Tanović impugna la cinepresa come un fucile e spara fotogrammi caustici: contro i serbi, certo, da bosniaco che in due anni aveva osservato da vicino gli orrori della “pulizia etnica” serba, ma siccome la stupidità, l’arroganza e l’ipocrisia non hanno confini punta l’obiettivo anche sugli opportunismi e le falsità degli ufficiali ONU. Lo sposta sull’oscena invadenza dei giornalisti affamati di scoop. Lo avvicina sulla rabbia cieca e suicida di Ciki, il soldato bosniaco speculare all’ingenuo Nino, il serbo imbranato, ma non per questo meno pericoloso. L’ultima inquadratura, uno zoom a ritroso lentissimo, rispettoso come davanti a un oggetto sacro, è sul corpo di Cera, il povero cristo, l’uomo fuori posto in quella terra disumana.

Il regista si astiene dal ruolo di giudice, non emette sentenze. Fa parlare le immagini, i fatti. Nei dialoghi ricorre agli effetti obliqui dell’allusione, del sarcasmo; raramente esplode una verità, un’invettiva pronunciata chiara e forte. Quando questo succede, è solo per saturazione. Il silenzio è d’obbligo quando gli sguardi dicono tutto, e quel che manca lo dicono i gesti, come il dito medio alzato da Nino verso la giornalista che gli chiede se sia stato lui a mettere la mina sotto il corpo di Cera. O come le gambe accavallate sulle scrivanie dei militari ONU: che siano i pesanti scarponi di un pigro ufficiale, o le cosce affusolate della segretaria del colonnello Soft, è esplicita l’accusa di menefreghismo pilatesco rivolta alle “forze neutrali di pace” dei caschi blu.

Nel luglio 1995 le truppe di Ratko Mladić, capo di stato maggiore dell’esercito della Repubblica Serba, irruppero a Srebrenica, cittadina decretata “area protetta” dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU tra aprile e maggio 1993 e posta sotto protezione dei caschi blu, dove da mesi si erano rifugiati moltissimi bosniaci fuggiti dai villaggi limitrofi.
In migliaia, terrorizzati per l’ingresso in città delle truppe, avevano cercato rifugio nella base dei caschi blu di Potočari, a pochi chilometri da Srebrenica. I militari olandesi invece di accoglierli chiusero le porte consegnando di fatto i civili ai soldati nemici. L’11 luglio vennero deportate, uccise e occultate in fosse comuni più di 8300 persone, tutti bosniaci.

L’eccidio più feroce in Europa dalla fine della seconda guerra mondiale. Migliaia di civili, tra bambini, donne e vecchi, vennero sfollati con la violenza, altri tentarono la fuga in quella che fu per molti una marcia della morte. I tribunali olandesi hanno confermato, seppure al ribasso (10%) rispetto alle valutazioni espresse dalla Corte Europea (30%), la responsabilita’ dei loro militari ONU nella strage di Srebrenica, un orrore immenso compiuto in nome della ‘pulizia etnica’ e della ‘Grande Serbia’, per il quale sono state condannate ad oggi cinquanta persone, tra le quali Ratko Mladić, condannato definitivamente un mese fa all’ergastolo per “genocidio, crimini contro l’umanità, crimini di guerra, sterminio, deportazioni, altri atti disumani quali i trasferimenti forzati, gli omicidi, il terrore, gli attacchi indiscriminati alla popolazione civile, il sequestro di ostaggi, sia per fatti particolari quali l’assedio di Sarajevo e il genocidio di Srebrenica, sia per le finalità generali delle sue attività criminali.” (dal testo della sentenza d’appello – L’Aja, 8 giugno 2021)


Non si può restare neutrali di fronte a un massacro. Non fare nulla per evitarlo, significa esserne complice.

Sergente Marchand

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