La calda amante, di François Truffaut (La peau douce, 1964)

di Andrea Lilli –

Dopo il successo di Jules e Jim (1962) François Truffaut incontra maggiori difficoltà del previsto nella preparazione del nuovo film, Fahrenheit 451. Allora decide di realizzarne prima un altro: con Jean-Louis Richard, lo sceneggiatore del romanzo di Ray Bradbury, in un solo mese scrive il copione di L’amour le jour, titolo provvisorio di La peau douce (La calda amante è una traduzione squallida), che viene girato in poche settimane per essere presentato a Cannes nell’aprile del 1964. L’insuccesso è enorme. Gli spettatori, dopo aver applaudito una pellicola coraggiosa, qualcuno disse rivoluzionaria, che aveva celebrato la grandezza e il precipizio dell’amore anarchico di due amici per la stessa donna, restano delusi, sconcertati, quasi offesi da questo triangolo molto più banale: il marito, la moglie, l’amante clandestina. Un’altra storia d’amore e dipinta ancora in bianco e nero, ma qui pervasa da una grigia, piatta, deprimente malinconia. Fischiato e disertato nelle sale, con gli anni rivalutato e non solo per le qualità formali, La peau douce va invece visto e rivisto con attenzione, per varie ragioni. Anzitutto perché è un film-chiave per capire Truffaut.

Il marito si chiama Pierre Lachenay (Jean Desailly) ed è un intellettuale molto noto, grazie alle sue apparizioni televisive ma anche perché siamo ancora nell’era della sacralità della carta stampata. Dirige una rivista letteraria dal nome significativo, Ratures (Cancellature, o annullamenti). È sposato con Franca (Nelly Benedetti), una donna di bellezza e temperamento mediterranei, e ha una piccola figlia, Sabine. Uomo di mezza età assorbito interamente dal proprio lavoro, che evidentemente lo gratifica rendendolo sicuro di sé, nella vita sentimentale si rivela debole e goffo. Nella prima sequenza lo vediamo affrettarsi verso casa per prendere la valigia e correre all’aeroporto, appena in tempo per salire sul volo per Lisbona, dove lo attende una conferenza su “Balzac e il denaro”. Già in aereo nota la graziosa hostess Nicole (Françoise Dorléac). Finita la conferenza, la ritrova per caso nell’ascensore del suo hotel. Alloggia lì anche lei. Riesce ad incontrarla la sera successiva, stavolta non per caso, e a trascorrere una notte d’amore.

La relazione potrebbe finire così, come in un primo momento suppone Pierre, o continuare saltuaria e disinvolta, come desidera e dispone Nicole, senonché Pierre si innamora seriamente della ragazza. La quale ha una ventina d’anni meno di lui ma sembra molto più saggia, perlomeno più serena e coerente nel voler vivere una storia non troppo impegnativa, mentre Pierre è tormentato, confuso, quasi infantile nell’inseguire un sogno unilaterale di possessione esclusiva. La moglie, Franca, pur in assenza di prove non ci mette molto a capire cosa stia succedendo al marito, ma per quanto lo supplichi di aprirsi con sincerità, lui non fa che nascondere i propri sentimenti, il che naturalmente aumenta a dismisura prima il disagio, poi l’angoscia e l’odio di Franca. Fino al tragico finale, indotto da una serie di coincidenze nefaste. Del resto se la fortuna aiuta gli audaci, la sfortuna non può che giustiziare gli ipocriti.

La sceneggiatura è ispirata a due fatti di cronaca, ma è chiara la matrice autobiografica. In quel periodo François Truffaut era in crisi coniugale con Madeleine Morgenstern (da cui aveva avuto due figlie), mentre aveva una relazione con l’attrice Liliane David. La peau douce venne girato nell’appartamento in cui Truffaut viveva con la moglie, trasformato in casa Lachenay (il cognome di Pierre è un omaggio a Robert Lachenay, amico d’infanzia e collaboratore di Truffaut). Il divorzio con Madeleine venne deciso dopo l’uscita del film. Amante compulsivo dei libri e dei film come delle donne, Truffaut disse che il suo scrittore preferito era Balzac, ed è sull’autore della Fisiologia del matrimonio che Pierre tiene la conferenza di Lisbona; in seguito, Pierre è invitato a presentare un film a Reims, in un cinema alle cui pareti è appesa la locandina de Il testamento di Orfeo, pellicola di Jean Cocteau che venne finanziata anche da Truffaut. Quello che Pierre deve presentare è Avec André Gide, un docufilm di Marc Allégret in cui l’attore Jean Desailly (Pierre Lachenay) è la voce narrante. Pierre Lachenay (Jean Desailly) viene infine vestito come Truffaut si vestiva abitualmente: giacca e cravatta, camicia bianca. Ciliegina su questo pastiche di intrecci tra realtà e finzione e tra uomo e cineasta, la relazione sbocciata fra François Truffaut e Françoise Dorléac, protagonista di turno del suo film e della sua vita privata allo stesso tempo.

Françoise Dorléac e François Truffaut

Oggi il regista avrebbe novant’anni e Françoise Dorléac ottanta, se gli dèi ce li avessero lasciati. Invece se li sono ripresi presto, come tutti quelli che gli sono più cari, concedendoci – bontà loro – qualcosa degli effetti personali. In questo caso dobbiamo contentarci di Catherine Deneuve, che di Dorléac è la sorella minore e di Truffaut l’attrice amata per due anni (1969-70). Però, quando vediamo La peau douce, senza negare alcuna qualità della Deneuve, rimpiangiamo la Dorléac, scomparsa nel 1967 a 25 anni per un incidente automobilistico, dopo aver girato ventuno film in sette anni. Tanto una è fredda e impassibile, almeno in apparenza, tanto l’altra era eclettica, vivace.

Tutto ciò premesso, è comprensibile la sottile cattiveria con cui Truffaut dipinge le debolezze, le viltà dell’adultero Pierre, di cui pure vuole studiare e capire i perché. Quest’uomo di cultura indaffarato e ingenuo, sprovveduto e insieme presuntuoso rappresenta per il regista un nemico interno pericoloso, di cui vale la pena fare una vera e propria vivisezione. Ne La peau douce Truffaut non mette un grammo del romanticismo solare e trasgressivo di Jules e Jim. Tanto le passioni là erano aperte, spavalde, radicali, quanto qui nascoste e represse. Non c’è purezza ma avidità nel modo in cui il falso timido Pierre guarda Nicole, il suo sorriso, la morbida pelle. Negli sguardi verso la moglie c’è invece fastidio e distacco, che fanno male più degli schiaffi di lei. Tutto il film è un gioco di sguardi, che fissano o sfuggono gli occhi altrui, ma che raramente li incontrano davvero. Entrambe le donne cercano il dialogo, ma Pierre è un sordocieco grave. E tra l’una e l’altra non sa come muoversi: esita talmente a decidere quale debba essere la sua donna, che entrambe se ne liberano con sollievo.

Prigioniero di un perbenismo borghese intollerabile in un esperto di Honoré de Balzac (nell’unico momento di lucidità esclama “Mi detesto”), si muove in modo maldestro, agisce sempre in ritardo (arriva tardi all’aeroporto nella prima sequenza, tardi a decidere il divorzio, infine troppo tardi alla cabina telefonica). Non sa cosa vuole, finché non lo vuole più, o meglio finché lui non è più voluto. Quando Pierre porta Nicole a vedere l’appartamento in cui vorrebbe adorarla e rinchiuderla – nuova moglie, nuovo bell’animale domestico -, la ragazza vede finalmente l’intero equivoco della relazione, fa un bel sorriso e scappa a gambe levate. Così, come regolarmente succede nei film di Truffaut, alla fine sono le donne a decidere il destino del loro inseguitore. Le sue protagoniste femminili vedono sempre più lontano di quanto arrivi a scorgere il miope uomo, e il loro orizzonte ha 360 gradi, non i 180 di chi resta immobile.

Françoise Dorléac 

Anche dal punto di vista formale La peau douce è molto diverso dai precedenti tre lungometraggi. Prima di girarlo Truffaut era stato negli Stati Uniti, nel 1962, dove aveva stretto amicizia con Alfred Hitchcock, uno dei suoi principali punti di riferimento stilistico. Il loro dialogo fecondo non solo porterà alle stampe uno dei sacri vangeli dei cinefili: Il cinema secondo Hitchcock (1966), ma condizionerà il modo di fare cinema del regista parigino, a cominciare appunto da questo film. I giochi di luce e di buio, l’attenzione ai dettagli (i vestiti fuori moda di Pierre, i jeans di Nicole), l’ironia applicata alla fisionomia (l’élite culturale di Reims), gli oggetti ripresi da vicino (i pulsanti della macchina, quelli della luce, le scarpe), la carica emotiva della colonna sonora (qui lagnosa e ripetitiva), la dilatazione del tempo (la scena dell’ascensore in salita) o il suo restringimento (la rapida fuga di Nicole lungo le scale del ‘nido d’amore’ in costruzione), i primi piani frontali nei momenti topici, l’espediente dello spettatore che sa quel che i personaggi non sanno, la funzione decisiva del montaggio: sono tutte lezioni prese dal maestro del thriller e messe a frutto dal devoto discepolo. Di suo, François Truffaut mette in questo film – più che in tanti altri – emozioni e sentimenti attinti direttamente dalla propria vita, e trasmessi con la consueta eleganza: ed è un regalo insostituibile.


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pagina da: Oreste De Fornari, I film di François Truffaut, Gremese 1998

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