Shampoo, di Hal Ashby (1975)

di Bruno Ciccaglione

Dopo che Bonny and Clyde, diretto da Arthur Penn nel 1967, aveva rotto più di un cliché e sorpreso tutti per il grande successo al botteghino, aprendo di fatto la stagione che sarà poi definita della New Hollywood, Warren Beatty, star e produttore del film, decise di coinvolgere l’amico sceneggiatore Robert Towne in un nuovo progetto, che li vedrà impegnati a fasi alterne per i successivi 7 anni: Shampoo.

Hal Ashby, Warren Beatty e Robert Towne

La lavorazione inizierà però soltanto nel 1974: la nuova Hollywood della fine degli anni ’60 ferveva di progetti, ma il cambio di paradigma produttivo era ancora in una fase embrionale: la nuova centralità attribuita ai registi e agli scrittori e un modo nuovo di affrontare i temi, influenzato da un lato dall’avvento della televisione e dall’altro dalle altre cinematografie mondiali (la Nouvelle Vague, la commedia all’italiana, il cinema d’autore del Blow Up di Antonioni…), non ha ancora conquistato tutti.

Mentre a Hollywood una nuova generazione di filmmaker (attori, registi, sceneggiatori, produttori) costruisce reti di amicizie e immagina un modo diverso di fare cinema – e nel 1969 il successo clamoroso di Rosemary’s baby ed  Easy rider segnerà un nuovo spartiacque, convincendo molti a spingere per un ulteriore rinnovamento – due eventi arrivano a cambiare radicalmente l’atmosfera negli USA e a Hollywood e avranno entrambi un eco molto forte su Shampoo.

Il primo evento fu l’elezione di Nixon alla presidenza degli Stati Uniti nel 1968, dirompente per il suo impatto complessivo sui sogni di cambiamento nella società americana. Ma l’elezione di Nixon si rivelerà ancora più chiaramente come ”l’inizio della fine” di un’epoca, quando il presidente si dimetterà nel 1974 a seguito dello scandalo Watergate – magnificamente raccontato in un altro film della New Hollywood, Tutti gli uomini del presidente. Gli sceneggiatori Beatty e Towne, all’indomani delle dimissioni di Nixon, decidono di ambientare Shampoo proprio nel giorno dell’election day: il racconto è continuamente accompagnato dalle apparizioni televisive di Nixon durante la campagna elettorale, il che rende esplicito il parallelo tra l’ipocrisia della politica e delle sue promesse e l’ipocrisia con cui viene vissuta la sessualità dai protagonisti del film.

L’altro evento chiave è il massacro di Cielo Drive dell’agosto 1969, in cui i seguaci della setta di Charles Manson uccideranno Sharon Tate (moglie di Polanski) e altre 3 persone, tra cui il “parrucchiere delle star” Jay Sebring, che sin dall’inizio era stato la figura cui Beatty e Towne – suoi grandi amici – si erano ispirati per costruire il protagonista di Shampoo.

Quando finalmente Beatty riesce a convincere Towne a finire la sceneggiatura di Shampoo, lo sceneggiatore è appena reduce da due capolavori, L’ultima corvé di Hal Ashby (1973) e Chinatown di Roman Polanski (1974), che gli darà l’Oscar per la migliore sceneggiatura originale. Beatty oltre che collaborare alla scrittura, investirà un milione di dollari in Shampoo e oltre che il protagonista sarà dunque anche il “produttore creativo”, con frequenti invasioni di campo nella regia, che invece viene affidata all’amico Ashby. Una scelta che si rivelerà molto azzeccata, sia per la pazienza con cui Ashby lascerà correre sulle molte interferenze di Beatty, sia per la capacità del regista di colmare invece le lacune che la frenesia entusiasta dell’attore/sceneggiatore/produttore lasciava inevitabilmente sulla propria strada, garantendo al film una solidità che altrimenti non avrebbe potuto avere.

Hal Ashby e Warren Beatty sul set

La storia è quella di un parrucchiere di Beverly Hills, che ha un successo incontenibile – sia professionale che sessuale – con le belle clienti dei quartieri alti di Hollywood. George (Warren Beatty al massimo del suo fascino), nell’arco della giornata delle elezioni per la presidenza, entra ed esce dal salone di parrucchiere dove lavora e dalle camere da letto delle sue amanti, fidanzate o clienti, mentre tenta di trovare un finanziamento per mettersi in proprio, magari dal ricco e spietato uomo d’affari con cui senza saperlo condivide ben due delle proprie amanti (e con la cui figlia, incidentalmente, gli capiterà nel corso film di andare a letto…).

L’esordio hot di Carrie Fisher

George, che formalmente ha una fidanzata, sembra incapace di dire di no a tutte le sollecitazioni e le richieste che gli vengono da clienti e amanti e si aggira per le colline di Beverly Hills tra ville di lusso e piscine come un moderno cowboy in motocicletta, con un Phon infilato alla cintura come fosse una pistola, con un’attitudine che appare quasi passiva verso tutto quello che gli capita. La libertà di costumi sessuali del mondo in cui si aggira non pare avere molto di realmente appagante ed egli non sembra guidato da alcuna vera passione.

Seguendolo nelle sue peripezie, il tono da commedia sexy diverte, ma progressivamente prendiano coscienza del vuoto di senso che domina le vite che ci vengono raccontate. Riusciamo inoltre a entrare in contatto con due mondi paralleli. Da un lato quello di George, dei “figli dei fiori” che popolano il mondo degli artisti o aspiranti tali di Los Angeles, dove i costumi sessuali e il consumo di droghe sono liberi, ma dove quella libertà appare sempre di più come un mero prodotto di consumo. Dall’altro il mondo degli affari, rappresentato dal ricco industriale Lester (interpretato da Jack Warden), dominato da ipocrisie e menzogne nella vita privata e dal denaro nell’ambito pubblico e politico.

Emblematiche le due scene in cui i protagonisti, per una serie di circostanze casuali e impreviste si incontrano in successione in due diverse feste: una è una cena elettorale elegante del partito repubblicano, in cui Jackie (Julie Christie) si diverte a scandalizzare i benpensanti in smoking annunciando di volere, più di ogni altra cosa, “succhiare l’uccello” di George, per poi infilarsi sotto il tavolo per passare dalle parole ai fatti. L’altra è una festa psichedelica – l’atmosfera è garantita dai mille colori e dalla musica di Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band dei Beatles – in cui alle droghe e al “libero amore” si contrappongono gli interventi televisivi e le promesse elettorali di Nixon alla televisione.

Il potenziale pungentemente ironico di questi interventi si rivelerà importantissimo per il successo del film e l’attenzione alla selezione di materiali che risultassero particolarmente paradossali per il pubblico, alla luce degli scandali che avevano portato Nixon alle dimissioni, fu uno dei contributi più importanti di Ashby.

Girato con un cast straordinario che offre interpretazioni eccezionali (Julie Christie, Goldie Hawn, Lee Grant, Carry Fisher), con la fotografia del leggendario László Kovács e le musiche di Paul Simon, il film avrà un successo clamoroso, probabilmente anche grazie al fatto che l’immagine pubblica di Warren Beatty era all’epoca molto simile a quella del donnaiolo che interpreta nel film e che tutte e tre le attrici protagoniste del film erano effettivamente state legate a lui sentimentalmente. Il pubblico ebbe in parte la sensazione che Beatty stesse mettendo in scena il lato intimo di se stesso.

In realtà il personaggio di George appare completamente differente da Beatty. George è totalmente impolitico, mentre Beatty voleva fare un film in cui sesso e politica fossero esplicitamente intrecciati. Più volte dirà che Shampoo è un film sull’ipocrisia che domina nella politica e nei costumi sessuali. Del resto il personaggio di George, quando decide di agire con sincerità – accorgendosi di essersi innamorato di Jackie/Christie e poi confessando alla fidanzata le sue innumerevoli infedeltà – si ritroverà solo e in lacrime.

Anche il finale amaro del film si deve soprattutto alla pazienza e alla perseveranza di Ashby. Mentre i due sceneggiatori Beatty e Towne litigarono per giorni ad un finale diverso da quello previsto dalla stesura con cui avevano iniziato a girare – ciascuno spingeva in direzione opposta, Towne verso un finale meno amaro per George e Beatty per uno ancora più drammatico -, Ashby riuscì a tener duro sul finale originale, beffardo e amaro. Se Paul Thomas Anderson con Licorice Pizza sembra rievocare quegli anni e quei luoghi soltanto con una malinconica ma idilliaca nostalgia, il giudizio di Ashby, Beatty e Towne è ben più disincantato. La solitudine di George sulle colline di Beverly Hills che chiude Shampoo diventa il ritratto di un mondo che ha ormai perduto le illusioni e con esse una prospettiva di cambiamento della società e della vita.

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