di Fabrizio Spurio
1957 – Ed Gain è arrestato e processato per l’omicidio di almeno sei persone. I corpi sono stati conservati in casa dall’omicida. Con la pelle delle vittime confeziona paralumi e tenta anche di creare un abito per poter diventare una donna. E’ un uomo fortemente disturbato e legato da un rapporto morboso alla madre.
1959 – Robert Bloch, allievo e corrispondente di Howard Phillips Lovecraft, dà alle stampe il romanzo che lo consacrerà per sempre nel firmamento della letteratura thriller: “Psycho”, ispirato alle gesta del pluriomicida Ed Gain.
1960 – Alfred Hitchcock distribuisce, con la Paramount, il film Psycho tratto dal romanzo di Bloch.
E’ un successo straordinario. Un film costato appena 800.000 dollari, e girato con la troupe che di solito collaborava con il regista per la realizzazione dei suoi famosi telefilm, incassa un totale di 32 milioni di dollari solamente in America. Hitchcock stesso rimarrà spiazzato da questo successo. Dichiarerà che ha sempre girato i suoi film con i migliori mezzi a disposizione, con scenografie, attori e tecniche di alto livello, donando ai suoi spettatori un pranzo signorile da ristorante di lusso, ma poi ecco che una volta che propone al suo pubblico l’equivalente di un hamburger ottiene un apprezzamento come non ne ha mai ricevuto prima.
In effetti con questa pellicola Hitchcock va oltre i limiti che spesso si è imposto. Le sue pellicole precedenti sono sempre caratterizzate da storie intriganti, con lo sguardo attento all’animo dei personaggi, ma sempre con una notevole eleganza, senza mai giungere ad estremi. Con Psycho tutto questo viene superato. Il film è piccolo, ridotto nei mezzi rispetto alle pellicole precedenti, concentrato su pochi personaggi e su ambienti quasi dimessi, a parte quella che ormai, nell’immaginario collettivo, è diventata una casa simbolo del cinema di tensione: la casa della Madre di Norman Bates (Anthony Perkins), un personaggio sfuggente, intravisto più che palesato, ma del quale si avverte la presenza in tutta la pellicola.
La Madre (nel romanzo viene chiamata Norma, con un evidente richiamo al dualismo del protagonista), è onnipresente e la sua voce echeggia in tutti gli ambienti del film. Segue costantemente Norman, e lo spinge a coprire i suoi atti delittuosi. Norman, da figlio devoto, è combattuto tra il volerle bene e il desiderio di evadere e vivere finalmente la sua vita. Ma il controllo della Madre è troppo forte, più di quanto lui possa rendersene conto. Il potere della Madre è simboleggiato anche dall’incombente figura della grande casa che domina dalla collina, dalla quale si può controllare intorno, compreso il motel dove Norman lavora. Le finestre della casa diventano così gli occhi della Madre che tutto scruta e sorveglia.
Realmente il film inizia con un MacGuffin (un espediente per spostare l’attenzione dello spettatore su una situazione che poi, alla fine, si rivela secondaria rispetto la trama). Marion (Janet Leigh), ruba dall’agenzia immobiliare dove lavora, 40.000 dollari. Vuole servirsi di quella cifre per coprire i debiti del suo fidanzato Sam (John Gavin), con il quale vuole andare a vivere. La dualità dell’animo è il tema principale del film. Tutti i personaggi hanno qualche cosa da nascondere, una doppia identità che comunque li spinge sempre verso situazioni che li imprigionano. Scelte e decisioni sbagliate che, come dicono in un dialogo del film, rinchiudono i personaggi in gabbie, dalle quali non è facile uscire. Norman si è creato la propria gabbia, così come lo ha fatto Marion nel momento che ha messo in atto il suo furto. E’ proprio lei a dichiarare “…a volte la gabbia ce la costruiamo da soli.” La gabbia simboleggiata anche dalle righe orizzontali e verticali che nei titoli di testa, creati da Saul Bass, si inseguono e scorrono come le porte di una galera. Marion, a quel punto, decide che il suo furto è un gesto sbagliato e quindi vuole restituire i soldi. Ma a circa quaranta minuti di film ecco che la trama cambia totalmente direzione
Il pubblico, che ha seguito Marion nel suo tentativo di fuga con il denaro, che ha tifato per lei sperando che potesse riuscire nel suo intento, la vede morire, brutalmente assassinata nella doccia della sua stanza, dalla Madre, in una scena che ormai è iconica nella storia del cinema mondiale. La sequenze dell’omicidio è mirabile e violenta, ma nello stesso tempo è concepita per far credere allo spettatore di vedere una cosa che realmente non accade. Marion, sotto la doccia, viene colpita ripetutamente del coltello. Realmente, analizzando inquadratura per inquadratura, il coltello non tocca mai veramente il corpo dell’attrice, e l’illusione è data solamente da una potente unione di inquadrature studiate al millimetro e montaggio perfetto. E’ proprio la tecnica del montaggio che crea l’illusione delle coltellate, anche grazie alla colonna sonora realizzata con i soli archi. Durante la scena la musica, gli acuti e taglienti colpi di violino, suggeriscono una doppia idea: sembrano quasi essere le urla della vittima, tanto sono acuti, ma allo stesso tempo sottolineano, e danno anche corpo, ai tagli inferti dalla lama. Ogni colpo è sottolineato da queste note acute come se fosse proprio il coltello a eseguire questa mortale partitura. Ogni stacco è una staffilata di violino e le note sono perfettamente sincronizzate anche con le urla di Marion, amplificandone così l’effetto audio. Il sangue schizza sul fondo della vasca.
Mai prima d’ora Hitchcock aveva mostrato l’omicidio in modo tanto esplicito e violento. Anche per smorzare un po’ il tono decise di girare la pellicola in bianco e nero. Il direttore della fotografia John L. Russell, dosa sapientemente luci ed ombre, rendendo anche visivamente il contrasto tra luce e ombra che si alterna nell’animo umano. Oltre alla violenza, fino a quel momento mai così dura, nel film ci sono anche altri tabù che all’apparenza sembrano insignificanti, ma che per l’epoca erano risultato di scelte coraggiose. Poco prima di morire Marion strappa un foglio di carta. Getta i frammenti nel water. Hitchcock non esita a mostrarci l’interno del water dove i frammenti di carta galleggiano e lo sciacquone che la ragazza aziona. Un dettaglio “volgare”, ma anche l’omicidio è, in realtà, un atto volgare. C’è una contaminazione di sporco che invade l’ambiente del motel gestito da Norman. Il ragazzo attraverso un foro spia Marion che si spoglia per farsi la doccia. Il primo piano dell’occhio di Norman, circondato da gocce di sudore, fa capire che il ragazzo è intento a masturbarsi. Nei rapporti con gli altri Norman è impacciato, non sa bene come comportarsi. Ha un animo delicato e introverso, terribilmente timido. Ma nel momento in cui lui prova attrazione per una qualsiasi donna, ecco emergere la figura della Madre, possessiva e castrante.
La Madre non esita ad eliminare chiunque possa minacciare il suo rapporto esclusivo con Norman. Anche il detective Arbogast (Martin Balsam) sarà eliminato in una sequenza geniale nella sua realizzazione. Viene accoltellato dalla Madre mentre sale le scale della casa dove la donna vive.
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L’uomo colpito, ripreso frontalmente, barcolla indietro sulle scale; giunto al pavimento ecco che cade e la Madre si avventa su di lui per finirlo. In realtà Martin Balsam era seduto su una sedia, ripreso frontalmente in campo medio. Gli operatori agitavano la sedia, mentre alle spalle dell’attore che intanto simulava agitando freneticamente le braccia, su uno schermo, era proiettata la scenografia in carrellata, dando così l’idea che lui stesse cadendo giù dalle scale.
Per tutta la durata della pellicola siamo spinti da Hitchcock a provare pena per Norman, anche quando tenta di far sparire in uno stagno, la macchina di Marion, dopo che è stata uccisa, per eliminare ogni traccia della ragazza. Nel momento in cui la macchina sembra non poter più sparire nello stagno ci sentiamo in ansia insieme a Norman, con il terrore che lui possa essere scoperto e arrestato, un povero ragazzo la cui sola colpa è quella di amare la Madre, tanto da coprirne i crimini. Quando la macchina ricomincia a sprofondare, anche noi, come Norman, tiriamo un sospiro di sollievo. Ma nel finale la verità ci viene gettata in faccia con la forza di un maglio: per tutto il film abbiamo tifato per un folle pluriomicida, uno spietato serial killer affetto da personalità multiple. Sarà Lila (Vera Miles), sorella di Marion, a scoprire il segreto di Norman. Non è un caso che sia lei a scoprire tutto, in quanto si tratta dell’unico personaggio, tra i principali, a voler trovare la verità, ad agire per quello che è giusto, senza dover nascondere secondi fini (anche Sam rientra in questa categoria dei doppi volti, del resto nasconde a tutto la sua relazione con Marion, preoccupato di cosa la gente potrebbe dire della sua relazione extraconiugale, anche se in realtà lui è separato dalla prima moglie).
Lila riesce a penetrare nella villa in stile “gotico americano” dove vivono Norman e la Madre. Scende in cantina e li scopre la realtà: la Madre è deceduta da anni, e Norman ha tenuto accanto a se solamente un cadavere impagliato.
In realtà Hitchcock ci aveva già fornito la soluzione durante il film, suggerendola esplicitamente in due scene particolari.
La prima durante la sequenza della cena nell’albergo. Marion e Norman parlano delle loro vite, dei loro problemi e delle realtà dalle quali vorrebbero fuggire. Ma nella stanza, sulle pareti, ci sono le testimonianze della passione di Norman per la tassidermia, l’arte di impagliare gli animali. E’ facile vedere, a fine visione, lo sberleffo di Hitchcock nel suggerirci la rivelazione finale. In un altra scena, molto più sottile, vediamo, di schiena, Norman salire le scale di casa. Se ci si sofferma ad osservare il ragazzo si può far caso al fatto che, mentre sale le scale, ancheggia vistosamente, come se fosse una donna. Ma la realtà è un’altra. La psiche di Norman è totalmente fuori controllo. Come dice lo psichiatra nella stazione di polizia, nello spiegone finale dopo che Norman è stato arrestato, nella mente del ragazzo non c’è una semplice alternanza di personalità tra quella di Norman e la Madre, ma è la Madre ad avere il sopravvento. La mente di Norman è quasi sempre la Madre, e solo in casi minori è Norman più la Madre. Ma non sarà mai più Norman solamente.
In passato Norman ha ucciso la Madre e un amante di lei. L’uomo aveva scatenato la gelosia del ragazzo spingendolo ad avvelenarli entrambi. Ma il rimorso del matricidio è troppo atroce e Norman decide di “punirsi” offrendo il suo corpo alla Madre, di modo che lei possa continuare ad esistere. Per cercare di rimediare al suo atroce crimine Norman si sacrifica completamente. Di fatto lui si annulla, elimina la sua volontà e da corpo, nel senso letterale del termine, alla Madre. Averla impagliata e conservandola aumenta la convinzione che lei sia ancora insieme a lui.
Ma la Madre vuole l’esclusiva sul corpo e la mente di Norman, per questo prende il controllo del figlio potendo così eliminare tutte le donne, le “sgualdrine” che cercano di portarlo via con lei. La Madre a deciso, visto che lei non può avere altri uomini, allora neanche Norman avrà altre donne all’infuori di lei. Il rapporto dei due è totalmente simbiotico.
Norman vive nel terrore, nell’angoscia del peccato criminale commesso.
Norman ha creato un simulacro, un mausoleo funebre in onore della Madre, un luogo dove lei possa vivere indisturbata con la compagnia del figlio devoto. Quando nel finale non avrà più bisogno di fingere e di nascondersi, la Madre sarà libera di poter eliminare del tutto Norman, potendo così vivere la vita che il figlio, un figlio di cui vergognarsi, l’ha privata. Arriverà addirittura ad accusare il figlio, gettando su di lui la responsabilità dei delitti che lei non ammette di aver compiuto. La giusta punizione per un figlio, la più atroce di tutte: il rifiuto dell’amore materno.
Ci sono delle differenze sostanziali rispetto al romanzo originale dal quale Joseph Stefano ha tratto la sceneggiatura. La principale riguarda proprio la figura di Norman, che nel romanzo è descritto come un uomo corpulento, di mezza età, alcolizzato. Inoltre l’omicidio di Marion è più violento, culminando con la decapitazione della donna.
Importante è anche la scelta delle musiche. Bernard Herrmann ha deciso di ridurre la partitura al solo utilizzo degli archi, creando così un’atmosfera sospesa e tagliente. E’ stato proprio lui a suggerire ad Alfred Hitchcock l’utilizzo di note acute durante gli omicidi che costellano il film, in quanto il regista, in realtà, non aveva previsto musiche in quelle scene. Il risultato finale ne guadagna in potenza ed efficacia.
Psycho è un film che ha segnato un’epoca, creando di fatto il filone degli psycho-thriller che tanto successo avranno in futuro. E l’ombra di Ed Gain regalerà al cinema altre pellicole importanti (Il silenzio degli innocenti, Non aprite quella porta tra le altre), ma Psycho rimarrà sempre il punto di partenza con cui doversi paragonare.