Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?, di Ettore Scola (Italia, 1968)

di Bruno Ciccaglione

La pulsazione ritmica con cui si aprono i titoli di testa, due colpi in sequenza che ricordano il battito cardiaco, offre un tappeto che accompagnerà le scene chiave del film, aiutando a descrivere la contrapposizione tra l’opulento e annoiato mondo borghese della Roma dell’epoca – gli invitati ad una festa fanno un gioco di società battendo tutti insieme le mani in una trasfigurazione di questo ritmo – e quello vitale, apparentemente elementare e scarno, in realtà accompagnato da suggestioni poliritmiche e da una melodia che suggerisce spazi sconfinati, dell’Africa angolana. Questa piccola ma brillante idea di Armando Trovajoli, autore della colonna sonora, ci offre lo spunto per evidenziare come anche in un film minore della filmografia di un autore come Ettore Scola, il lavoro prezioso dei talentuosi collaboratori di cui si avvale (basti pensare ai complici di una vita del regista romano, Age e Scarpelli, che con lui scrivono soggetto, sceneggiatura e dialoghi), riesce a rendere ancora oggi gustosissimo e pungente un film in fondo leggero.

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Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? ha acquisito importanza col tempo, anche tra gli estimatori di Scola, mentre alla sua uscita (1968) fu accolto con freddezza, quando non con aperta ostilità dalla critica, pur riscuotendo un ottimo risultato commerciale (la sua colpa principale, forse). Scola è un regista anomalo nel panorama italiano: anche se viene dalla commedia commerciale, il suo lavoro, sia come “negro” (così si chiamavano i giovani chiamati a scrivere nello stile dei titolati autori per cui lavoravano, senza alcun riconoscimento, e Scola fu il “negro” per i film di Totò) che poi come battutista/dialoghista, e infine come sceneggiatore e come regista, sarà sempre ricco di riferimenti alla realtà sociale. Eppure Scola, anche quando darà alla luce alcuni tra i film più belli dell’intera cinematografia italiana (basti pensare a C’eravamo tanto amati, Una giornata particolare o Brutti sporchi e cattivi), sarà anomalo anche come “autore”. È uno che ha fatto la gavetta, ha imparato il mestiere, ha sviluppato la sua professionalità scrivendo per committenze varie, non in preda al sacro fuoco creativo che presuntamente caratterizza gli “artisti” agli occhi del pubblico. In genere, in ogni caso, si è concordi nel ritenere il film successivo, Il commissario Pepe (1969), come quello della svolta “autoriale” del cinema di Scola, mentre Riusciranno i nostri eroi… viene liquidato come una semplice commedia leggera. Indubbiamente appare strano, che nel 1968, con quel che succedeva nel mondo, Scola se ne andasse in Angola, dove tra l’altro era in corso un conflitto sanguinoso per la liberazione dal colonialismo portoghese. A ben vedere, col senno del poi, Riusciranno i nostri eroi… racconta forse meglio di tanti altri film la crisi che era sul punto di esplodere nelle società “sviluppate”, da cui si incomincia a desiderare la fuga.

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Il ricco editore Fausto Di Salvio (Alberto Sordi), sedotto dall’idea di un avventuroso viaggio in un’Africa che immagina ancora hemingwayana, decide di partire alla ricerca del cognato disperso da 3 anni in Angola. Tra mille peripezie, Di Salvio e il suo dipendente/schiavo il Ragioner Palarmini (Bernard Blier), seguendo le tracce del cognato – per lo più seguendo la scia delle truffe e delle malefatte che Titino ha lasciato dietro di sé – lo ritroveranno stregone di una piccola tribù locale, impegnato in riti propiziatori per la pioggia. Convinto a tornare a Roma, Titino (Nino Manfredi), che è riuscito nel miracolo di far piovere dopo sei mesi di siccità, decide alla fine di tuffarsi dalla nave del ritorno a casa e restare con la sua tribù, che dalla spiaggia lo acclamava. C’è ancora quel ritmo pulsante che avevamo sentito fin dall’inizio del film, nel battito di mani degli africani che cantano a Titino un ritmo ribattuto simile, che si precisa in un “Titi’ nun ce lascia’!”. Titino immagina se stesso rientrato a Roma, in una delle tipiche feste di società che abbiamo visto all’inizio, partecipare ai giochi annoiati della borghesia cui appartiene: è lo stesso ritmo, trasfigurato e addomesticato in questi salotti romani che gli dà la spinta per restare. Il ricco Di Salvio, che Alberto Sordi interpreta magistralmente in un percorso che è di graduale superamento dei propri pregiudizi e della propria sicumera, tentenna e per un attimo sembra volersi tuffare anche lui. “Dottore, ma che cosa fa, si vuol buttare anche lei?”, chiede il ragioniere Palarmini. “Non lo so, non ho le idee chiare”, risponde Sordi.

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Qualcuno sarà sorpreso, eppure il film è una trasposizione molto libera ed ironica del classico Cuore di tenebra di Conrad (che 11 anni dopo ispirerà Coppola per Apocalypse now). Qui Marlow diventa il commendator Di Salvio (Alberto Sordi, Martin Sheen nel film di Coppola) e Kurtz diventa Titino (Nino Manfredi, Marlon Brando in Apocalypse now). All’origine, in realtà, Scola aveva pensato ai due attori a ruoli invertiti, con Manfredi alla ricerca di Sordi, impegnato solo nella mezzora finale del film (come farà Coppola con la figura di Kurtz/Brando, creando un’aspettativa enorme per tutto il film, che grazie ad un attore di calibro come Brando non solo non delude, ma invece ripaga dell’attesa, pure in una parte piccola). Per impegni precedenti di Manfredi, alla fine Scola si decise a invertire i ruoli e probabilmente questo ha contribuito a rendere molto più interessante, nell’economia narrativa del film, tutta la fase della ricerca di Titino, senza creare una aspettativa eccessiva sul suo effettivo ritrovamento. Manfredi d’altra parte è straordinario nel suo ruolo di stregone. Il suo Titino ha fatto davvero il salto nel buio che il ricco editore Di Salvio non sembra in grado di fare, il salto di entrare a pieno in una cultura altra senza riserve, di abbandonare la vuota esistenza della società occidentale da cui è felicemente fuggito. Cercando di spiegare la sensazione che lo ha motivato, durante il rito propiziatorio, ad azzardare la previsione che “stasera pioverà”, dopo vari tentativi di trovare la parola giusta in italiano alla fine conclude: “Non esiste, in italiano!”. E la pioggia arriva davvero!

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Scola non aveva timore di lavorare con i grandi attori: li conosceva, aveva scritto per loro, li amava, ma soprattutto non viveva il proprio ruolo di autore con alcuna sacralità. Gli piaceva ricordare che “I grandi attori erano autori veri, nel senso etimologico: autore vuol dire auctor, che aumenta. Cioè gli si davano delle scene, che loro aumentavano. In questo senso Totò diventava autore, Sordi diventava autore, anche se non hanno mai scritto neanche una cartolina nella loro vita”. E questo è il contributo di Sordi al film. In un certo senso poi, Sordi interpreta sempre Sordi (e per fortuna, si dirà!). Qui la sua interpretazione riflette quasi in modo speculare l’evoluzione del suo personaggio nel corso del film. È noto che l’attore fosse molto contrariato dall’idea di partire per andare a realizzare il film in Africa: “Potevamo fare tutto a Fiumicino!”, pare abbia invocato al momento di partire per l’Angola. Per le sue manie igieniste e per il suo proverbiale distacco dalla mondanità e dalla condivisone tipica dei set, per la prima settimana in Africa addirittura non toccò cibo e bevve soltanto l’acqua minerale che era stata portata dall’Italia. Eppure durante le ultime giornate di riprese, Scola ricorda Sordi seduto per terra in mezzo ai boscimani della tribù che compare nel film, in cerchio con gli altri a mangiare con le mani le pietanze farinose locali che erano al centro di questo grande cerchio. Oppure lo ricorda con le decine di bambini avvinghiati a lui durante le pause tra un ciack e l’altro. Quando la troupe ripartirà dal vicino aeroporto per tornare in Italia, addirittura, la tribù dei Mugubal improvviserà per Sordi la stessa canzone che aveva cantato nella scena per Titino, cambiando il nome in “Albe’ nun ce lascia’”, facendo esplodere il pianto del grande attore romano. Sullo schermo basta vedere l’ultima scena, con Di Salvio a cavalcioni sul ponte della nave, in preda al capogiro ed alle visioni, per capire come anche in questo film, l’attore sia anche autore, colui che aumenta il valore di una scena e di un film.

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