Arancia meccanica, di Stanley Kubrick (A Clockwork Orange / UK, USA 1971)

di Bruno Ciccaglione*

Il dominio della tecnica e della razionalità scientifica, il governo ridotto a “governance” che si affida agli “esperti”, l’illusione autoritaria del controllo totale sulle persone e perfino sui loro più intimi istinti agendo direttamente sul loro corpo. Se all’uscita del più controverso dei film di Kubrick l’elemento più sottolineato fu l’ultraviolenza di Alex (Malcom Mc Dowell) e dei suoi drughi, oggi appare forse più sconvolgente lo sguardo di totale sfiducia con cui Kubrick guarda al genere umano, uno sguardo reso ancora più corrosivo dal corto circuito creato dal conflitto tra la violenza e la sua estetizzazione, cui contribuisce in modo decisivo la musica di Rossini e di Beethoven. Un film che quindi ci parla ancora di più e più profondamente oggi di quanto non facesse allora, proprio perché svela/prefigura la strana alleanza tra la violenza puramente istintiva di Alex e quella istituzionale del potere con cui si concluderà il film.

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Dopo aver realizzato una delle opere più ambiziose della storia del cinema, 2001: Odissea nello spazio, Kubrick aveva voglia probabilmente di dedicarsi ad un progetto produttivamente più agile ed infatti Arancia meccanica sarà realizzato con una piccola troupe. Ciò nonostante, sono tutti presenti i tratti tipici del suo stile: un uso frequente della camera a mano, imbracciata immancabilmente dallo stesso Kubrick; ampio spazio all’improvvisazione degli attori (sarà Malcom Mc Dowell a scegliere di cantare Singing in the rain, di cui Kubrick si precipitò ad acquistare i diritti il giorno stesso); uso frequente del grandangolo a deformare le inquadrature per sfuggire al realismo eccessivo della rappresentazione; l’uso dello zoom all’indietro (con cui si apre il film, a partire dal primo piano di Alex, e che poi sarà la cifra espressiva del film seguente Barry Lyndon). I carrelli all’indietro ad anticipare il protagonista che cammina (Alex nel negozio di dischi vestito in stile settecentesco ricorda il Dax nelle trincee di Orizzonti di gloria, ma è vestito come un personaggio di Barry Lyndon); l’inquadratura dal basso ed al rallentatore di Alex al momento dell’aggressione ai suoi stessi drughi ricorda la scimmia che sferra i suoi colpi con un femore di animale, che segnerà il passaggio dalla scimmia all’essere umano in Odissea nello spazio. Più in grande, alla simmetria interna di molte inquadrature, come nel più tipico stile kubrickiano, si aggiunge quella della struttura del film, diviso in due parti speculari, la seconda il contrappasso della prima, con il carnefice Alex che diventa vittima e viceversa con le sue vittime a diventare suoi carnefici (una struttura così nettamente simmetrica sarà poi adottata anche per Barry Lyndon e molti anni dopo per Full Metal Jacket).

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Le scelte estetiche sono, al solito, al servizio di una storia che Kubrick adatta alla sua visione del mondo. Innanzitutto c’è il conflitto tra istinto e ragione, che pervade tutto il suo cinema. In un’intervista Kubrick dirà che col personaggio di Alex intendeva rappresentare l’uomo completamente privato dei freni inibitori della coscienza, l’uomo la cui natura inconscia si manifesta senza freni. In questo senso, perfino un “cattivo” come Alex ci somiglia e Kubrick vuole svelarci i nostri tratti comuni a una figura che così crudamente esplicita pulsioni e istinti che ciascuno coscientemente reprime; per questo ci porterà addirittura a provare empatia per Alex, di cui pure vediamo benissimo la natura. Ma appunto, la sua violenza è ben diversa da quella dei suoi stessi drughi, coi quali il conflitto è inevitabile. Mentre i suoi compagni di avventura vogliono superare l’adolescenza (diventare grandi significa per loro ambire ad un livello criminale più alto, di colpi più fruttuosi e non a caso poi troveranno nel mestiere di poliziotto il ruolo più consono al loro curriculum di criminali da mezza tacca), Alex non è guidato che da uno sfrenato edonismo ed egoismo. Il pensare ad una propria collocazione all’interno della società è fuori dalla sua logica, nella prima parte del film. Solo nel finale, la spregiudicatezza di un ministro lo aiuterà a canalizzare la ritrovata spinta ultraviolenta al servizio del sistema di potere.

L’altro polo di attrazione, nella dinamica kubrickiana, è quello della razionalità scientifica. La scienza come trionfo della razionalità, suggerisce Kubrick, in genere porta a risultati assolutamente folli, si pensi al film Il dottor Stranamore. Qui al posto della bomba atomica c’e il trattamento Ludovico, cui Alex viene sottoposto per farlo “diventare buono”: un condizionamento fisico e psicologico con cui si indurrà la nausea ed il vomito ogni volta che che il suo istinto lo spinge ad azioni violente, e che “per sbaglio” gli provocherà le stesse terribili reazioni anche quando verrà esposto alla Nona sinfonia di Beethoven. La manipolazione e il condizionamento cui Alex viene sottoposto prefigurano, lo capiamo meglio in un’epoca come la nostra, l’ossessione del controllo sulle menti da parte del potere, con la sola differenza che nel film il condizionamento avviene combinando chimica e immagini dei film, mentre oggi a farla da padrona è la tecnologia. Forse solo in una cosa la realtà sembra aver superato l’intuizione di Kubrick: in Arancia meccanica è ancora il potere politico dello Stato a garantire la mediazione ed a controllare la scienza, sia pure un potere politico totalmente post-ideologico che si “affida agli esperti” (vi ricorda qualcosa?), salvo poi scaricare su di loro la responsabilità dei fallimenti. Oggi, invece, viene da pensare che la tecnologia sia piuttosto gestita al di fuori delle istituzioni, da pochi grandi soggetti privati.

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Una nota speciale merita la scelta delle musiche: come era già avvenuto per Odissea nello Spazio (con Also sprach Zarathustra nell’Alba dell’uomo e poi il walzer di Strauss del Bel Danubio Blu ad accompagnare le navicelle nello spazio), per chi ha visto il film alcuni brani resteranno per sempre associati ad alcune scene di Arancia meccanica, innanzitutto i brani di Rossini (memorabile il triangolo erotico di Alex con due ragazze, nella sua camera da letto, con il Guglielmo Tell di Rossini, girato a velocità accelerata) e poi soprattutto la Sinfonia n. 9 di Beethoven, che torna qua e là in una versione elettronica per tutto il film. Alex è un fan ed un conoscitore di Beethoven, il musicista simbolo delle più alte vette raggiunte dall’arte occidentale, il primo artista in senso “moderno”, che produce in libertà e per l’umanità, anziché per un committente. Troppo facile sarebbe stato associare alla violenza di Alex della musica “maledetta” (qualche forma di hard rock/metal ecc.). La cultura alta non necessariamente nobilita l’uomo, sembra dirci Kubrick. Del resto la “temuta Nona”, che pure si chiude con il canto dell’Ode alla gioia di Schiller che inneggia alla fratellanza di tutti gli uomini, è stata usata ampiamente come musica di propaganda dai più diversi regimi autoritari del mondo. La bellezza delle musiche scelte ad accompagnare la violenza di Alex della prima parte del film, d’altra parte, trasforma questa violenza in una danza, ci “diverte”. È sempre l’ambivalenza a interessare Kubrick: una canzoncina leggera come Singing in the rain diventa la colonna sonora della scena più violenta del film ed assume un sinistro e mostruoso significato (sarà proprio il cantare questa canzone che rivelerà la vera identità di Alex allo scrittore che era stato sua vittima).

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Non si stenta a credere al disappunto di Kubrick, col film già in avanzata realizzazione, quando nella pubblicazione della seconda edizione americana del romanzo Clockwork Orange di Anthony Burgess era comparso un ultimo capitolo in cui Alex diventa davvero “buono” e decide con una scelta cosciente di cambiare vita. Kubrick trovava molto più interessante il primo finale, che poi ispirerà, con la consueta libertà, la conclusione del film. Alex, sopravvissuto al tentato suicidio, si allea col ministro responsabile del “trattamento Ludovico” cui è stato sottoposto e si garantisce, così, un brillante futuro. Ma nel frattempo il trauma cranico sofferto dopo il tentato suicidio ha riportato Alex alla condizione iniziale. Il condizionamento cui è stato sottoposto e che gli ha fatto subire violenze e umiliazioni di ogni tipo è cessato: Alex è “guarito” e noi spettatori, non possiamo che accogliere con uno strano sollievo questa informazione. Questa strana alleanza finale col ministro, con le istituzioni e con il potere, insomma, per Alex non rappresenta affatto una rinuncia alla violenza di cui lo sappiamo capace, ma solo una sua proficua canalizzazione, una mediazione più avanzata, e possibilmente ancora più mostruosa, che sarà alla base della società che verrà. Un film eccezionale.

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* Un particolare ringraziamento a Loredana Castellana, che ha offerto all’autore spunti e riflessioni essenziali nella realizzazione di questo articolo.


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